lunedì 26 novembre 2018

Mad Mini Reviews: Hill House


La locandina della serie
"La paura è la rinuncia alla logica, l'abbandono volontario di ogni schema razionale. O ci arrendiamo alla paura o la combattiamo."


Gli edifici infestati sono un topico narrativo di enorme successo letterario e cinematografico. L’esempio più eclatante è senza dubbio Shining, il famosissimo romanzo di Stephen King da cui è tratto il film cult di Stanley Kubrick.

Come ogni topos che si rispetti, ha un degno antenato: L’incubo di Hill House, di Shirley Jackson, datato 1959. Questo romanzo è stata la fonte d'ispirazione dell'omonima serie targata Netflix, appena uscita in Italia, che sta riscuotendo considerevole successo.

Il libro narra di un raffazzonato gruppo di aspiranti studiosi del paranormale che decide di passare l’estate a Hill House, villa nota per essere maledetta e inospitale, allo scopo di individuare e testimoniare eventuali manifestazioni soprannaturali

Il punto di vista principale è quello di Eleanor “Nell” Vance, giovane donna disagiata e infelice che nell’infanzia sembra aver assistito a un fenomeno poltergeist. La ragazza, fra una spaventosa manifestazione e l’altra, si lascia sedurre dalla casa convincendosi di aver trovato il suo posto felice nel mondo. O forse è Nell stessa, suggestionata dalle dicerie su Hill House, a divenire preda di una psicosi autoindotta.


La copertina del romanzo, edito da Adephi

La storia del romanzo, interessante nonostante risulti piuttosto grezza e non adeguatamente sviscerata  ve ne accorgerete leggendola, e io vi consiglio di farlo  è stata approfondita e migliorata da Mike Flanagan, regista indipendente che ha girato Oculus - il rilfesso del male, e diverse produzioni Netflix. 

Nella serie i protagonisti sono i membri della famiglia Crain, già  sopravvissuti una volta a Hill House e costretti ad affrontare nuovamente i loro traumi giovanili, a partire dalla morte della madre, mai del tutto chiarita, fino al rapporto conflittuale con un padre assente e dal carattere cupo e introverso. 


E come potete vedere, non ne sono molto contenti

A differenza del libro, che ha una protagonista e dei personaggi secondari definiti dalla sua prospettiva malata, la serie è corale e ognuno dei Crain è caratterizzato in maniera potente ed efficace.  Olivia, Hugh e i loro cinque figli ci vengono presentati con tutte le loro manie, le loro ossessioni, le loro paure e le maschere scelte per nasconderle o per esorcizzarle senza successo. Almeno finché non decideranno di arrendersi o di affrontarle, ma questo lo scoprirete guardando lo show.


Ciò che incuriosisce lo spettatore sono i perché, progettati e calcolati per intrappolarlo e costringerlo alla ricerca spasmodica delle risposte che, una a una, arrivano sotto forma di colpi di scena e cliffhanger della miglior fattura. In altre parole, è una di quelle serie che vi trascinerà con sé e vi costringerà a guardarla a perdifiato in pochissimo tempo  io, per dire, l’ho divorata in un paio di giorni , lasciandovi frastornati e vagamente sconvolti, ma sicuramente soddisfatti


Dopo potreste ritrovarvi con quest'espressione stampata in viso :D

Hill House è forte anche sul piano tecnico. Regia impeccabile e sempre focalizzata sull’obiettivo da raggiungere: che sia confondere, spaventare a morte o commuovere lo spettatore, ci riesce sempre benissimo. Merita una menzione speciale il sesto episodio, Due Temporali, girato con una serie di lunghi piani sequenza destabilizzanti e sublimi: provare per credere. 
La fotografia è notevole e riesce a mescolare fantasia e realtà, sogno e veglia, paura e coraggio, privandoli di un confine vero e proprio e rendendoli reali e tangibili, grazie anche alla sceneggiatura solida e ben strutturata. Unica pecca è l’uso, a mio parere eccessivo, e la qualità della computer grafica, a volte troppo evidente.

Come nel libro, il vero protagonista è il dualismo fra la casa, responsabile delle paure più ataviche, e i soggetti particolarmente sensibili che sviluppano pericolose nevrosi in presenza di luoghi suggestivi. Sono io o è Hill House?, continuano a domandarsi i personaggi della serie, e noi, come loro, non lo capiremo fino alla fine. Perché si sa, ci sono paranoie così influenti da sembrare realtà, dalle quali possiamo scappare quanto vogliamo ma che ciclicamente tornano a farci visita, fino al giorno in cui non decideremo di dar loro vita o di sconfiggerle e sotterrarle in una fossa una volta per tutte.

Non dimenticate di cercare i "fantasmi nascosti". Vediamo se li scoverete tutti! :)

lunedì 5 novembre 2018

Mad Mini Reviews: L'Uomo che uccise Don Chisciotte


Terry Gilliam, tra il sonno della realtà e l’ironia della tragedia

Non ce ne voglia il signor PrYce,
è bellissimo questo poster!

Poco più di un mese fa è uscito l’ultimo film di Terry Gilliam, L’Uomo che uccise Don Chisciotte, e da aspirante brava cinefila sono subito corsa al cinema. Conoscevo il famoso regista e avevo già visto alcuni suoi film quand’ero più piccola; stavolta però è riuscito a conquistarmi e a far sì che lo rivalutassi. Perché? Ora ve lo racconto.

Mi sembra doveroso partire dal meraviglioso passato di Terry Gilliam. Prima di essere un regista coi controfiocchi è stato membro del gruppo comico Monty Python, attivo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 e famoso per aver prodotto film, show televisivi, canzoni e quant’altro con una comicità intelligente e surrealista. Sicuramente non tutto il loro materiale è ad oggi pienamente apprezzabile –  ad esempio, secondo la mia opinione da miscredente Brian di Nazareth poteva essere molto più cattivo e meno legato ai classici sketch del gruppo – ma rimane sempre una piacevole compagnia


Ma soprattutto è impossibile non adorarli

Gilliam ha contribuito come attore occasionale, regista e animatore. Ecco, io spero abbiate visto la sigla e gli intermezzi del Monty Python’s Flying Circus o i titoli di testa dei film del gruppo, e se non lo avete ancora fatto spero stiate rimediando in questo preciso momento, perché sono fra le animazioni più belle che abbia mai visto.

Dalla fine degli anni '70 il nostro protagonista inizia a lavorare in proprio. Fra i titoli più importanti della sua filmografia abbiamo Brazil, capolavoro del 1985, che a dispetto del nome da cinepanettone è invece l’adattamento cinematografico più famoso di 1984 di George Orwell. Apoteosi della distopia allucinata e allucinante, regala più di due ore di disagio così sublime che fa venir voglia di passare almeno un giorno nella dittatura postmoderna ritratta nel film. 


Ne è un esempio una delle scene iniziali, quella nell’ufficio del Ministero, in cui una sapiente carrellata mostra gli impiegati, grigi quanto l’ambiente circostante, intenti a compiere gli stessi gesti in maniera meccanica e ripetitiva; in sottofondo, una variazione sul tema di Aquarela do Brasil conferisce alla scena una patina di genio, irrealtà e memorabilità, oltre al fatto che non smetteresti di fischiettare quel motivetto per giorni.

Negli anni ’90 il caro Terry, tra gli altri, ha sfornato un paio di cult, di quelli che appena li sentirete nominare esclamerete subito Ah, ma è di Gilliam?: L’esercito delle dodici scimmie e il celeberrimo Paura e Delirio a Las Vegas. Insomma, più rinomati di così non si può.


È a cavallo del nuovo secolo che Gilliam inizia a portare avanti il suo progetto su Don Chisciotte, personaggio che ama da sempre. La prima produzione si rivela però fallimentare, sia per vari problemi di salute del fu attore protagonista, sia per una serie di calamità atmosferiche che colpiscono i set esterni scelti per il film. Potete vedere tutto nel documentario Lost in La Mancha, ma non ho il coraggio di consigliarvelo perché temo vi spezzerebbe il cuore.


:(
Il nostro beniamino, fra un tentativo e l’altro, non si ferma e nel primo decennio del 2000, fra gli altri, gira lo stucchevole I fratelli Grimm e l’incantevole strega e Parnassus: l’uomo che voleva ingannare il diavolo, magica parabola sulle tentazioni e sulle possibilità dell’immaginazione


Già l'ambientazione in un moderno circo itinerante è di per sé geniale!

Ma è giunto il momento di fare un salto di quasi dieci anni e di parlarvi del film che ha finalmente visto la luce: L’Uomo che uccise Don Chisciotte. Il protagonista del film, Toby Grosini, affermato giovane regista di pubblicità, si trova in Spagna per girare uno spot basato su Don Chisciotte; preda della crisi artistica e della nostalgia del suo primo film, basato anch’esso sul romanzo di Cervantes e girato non lontano dall’attuale set, decide di andare a trovare il passato finendo per rimanerne invischiato. 


Verso la "pazzia", miei prodi!

Qualcuno ha detto che questo film rappresenta Gilliam allo stato puro, io non posso che dargli ragione: la sua cifra stilistica brilla in tutta la sua fierezza. Il graduale passaggio dalla realtà all’immaginazione è accompagnato da inquadrature sempre più sbilenche e da grandangoli sempre più numerosi; i colori da neutri e basici divengono più vivaci col crescere dell’allucinazione fino al raggiungimento del climax, al termine del quale la situazione torna alla normalità. Sarà davvero così?


Anche i protagonisti non sono meno caratteristici: tutti troppo intelligenti, o troppo insoddisfatti, o entrambe le cose, vorrebbero che la loro realtà fosse diversa da com’è e cercano il modo di cambiarla creandosi fantasie in cui vivere, che diventano la loro consolazione e la loro condanna. Come a dire ridiamoci su per non piangere, come a dire che l’ironia è la più alta forma d’intelligenza perché se si rimane un po’ bambini si vive meglio, e probabilmente Terry Gilliam ne è la dimostrazione vivente e la più viva speranza per chiunque si senta così. Più o meno tutti noi.


Ricordate sempre: la sanità è relativa