lunedì 4 maggio 2015

LIVORNO ACOUSTICS - Filippo Infante

Oggi conosciamo meglio Filippo Infante, musicista che ha militato in molte band della scena livornese ma che di recente ha deciso di intraprendere la strada solista. Presto uscirà con un nuovo disco con lo pseudonimo di 'Nu', di cui "Circles", la canzone che ha eseguito per noi in versione acustica di fronte alla fatiscente struttura dell'ex-sanatorio abbandonato di Villa Corridi, è una piccola anticipazione.




N.B. Prima di cominciare, ti avvisiamo che ogni intervista di Livorno Acoustics è suddivisa in due parti. La metà che leggerai qui di seguito è incentrata sul processo creativo del cantautorementre l'altra metà che potrai leggere su Occhio Livorno approfondisce  gli aspetti legati al suo rapporto con le istituzioni e con la professione di artista.


1. Cosa significa per te essere un creativo? 
Avere occhio e cervello. E anche un po' di auto ironia.


2. Cosa ti ha spinto a scrivere canzoni di tuo pugno, piuttosto che interpretare canzoni di altri artisti? 
Ho deciso di scrivere canzoni subito dopo lo scioglimento dei Lip Colour Revolution, il gruppo con cui ho suonato per quasi dieci anni. Inizialmente l'idea di scrivere da solo mi spaventò a morte. Mi sentivo sperduto ed eccitato insieme. Avevo già qualche canzone in testa ma non ne avevo mai scritta una fino a quel momento - a eccezione delle parole. Così, dopo qualche mese mi sono messo al piano e ho cominciato a cantare.  Le canzoni sono scivolate fuori una dopo l'altra, come se fossero state lì ad aspettare che mi accorgessi di loro. Molto di loro sono nate sotto una spinta creativa che non avevo mai provato prima di allora.
Avevo solo bisogno di lasciarmi andare, trovare il coraggio di tirare fuori un po' di cose che mi portavo dentro da troppo tempo. Parlare sinceramente, ecco. In certe canzoni mi sono messo così a nudo che una volta mi sono pure spaventato. Cosa sto facendo? mi dicevo. A nessuno fregherà un cazzo. Ma alla fine è servito. Mi sono sentito più leggero, più libero. E l'unico modo per farlo è scrivere ciò che si vuol dire piuttosto che interpretare brani e quindi “sfoghi” altrui.

3. Qual'è il tuo approccio alla composizione musicale? 
Sarò sincero: il mio approccio alla composizione è ancora tutto da definire. Siamo come due persone che si sono appena incontrate e  adesso qualcosa ci spinge a conoscerci meglio.
Queste canzoni sono il frutto di un approccio decisamente spontaneo, a volte perfino poco ragionato. Anche se sono “strofa-ritornello-strofa”, la loro composizione si è sviluppata in maniera consequenziale, legando le note fra loro istintivamente e senza pensarci troppo. Oppure mettendole al servizio della voce e delle parole: come nel modo più classico.
La fase più delicata è stata scrivere i testi, ma solo perché ho affrontato alcuni momenti difficili della mia vita legati all'amore e al mio particolare modo di vivere i sentimenti. Così ogni tanto ho cercato di stemperare la cosa affrontando anche storie più “spensierate”.
Ciò che conta per me è scrivere in modo semplice e diretto. Ti racconto una cosa e se ti interessa voglio che tu la capisca il più possibile. Riascoltando i pezzi dopo quasi un anno, mi rendo conto di alcuni punti deboli qua e là, e questo è un bene, perché mi aiuta a capire dove ho sbagliato, a rivalutare certe capacità che pensavo di aver già maturato.
Ora mi piacerebbe sperimentare un po' di roba elettronica, anche se questo richiede un nuovo approccio alla composizione. Sperimentare significa “curiosare”, una delle attività che preferisco. Senza curiosità saremmo ancora fermi a fissare il fuoco. Un po' come facciamo oggi davanti al computer.


4. Qual'è invece il tuo metodo per la scrittura dei testi? 
Di solito viene prima la musica e poi il testo. Almeno, fino a oggi per me è andata così. Con il mio gruppo funzionava allo stesso modo. Arrivava chi aveva già scritto buona parte della musica e solo successivamente aggiungevo un testo e una linea vocale. Adesso però sto cercando di scrivere le parole durante la fase di composizione della musica, evitando così di pensare al brano come un corpo suddiviso in differenti parti compositive. Nessun prima o dopo.
Fino a oggi ho sempre prestato più attenzione al testo. Scrivo da quando ero un ragazzetto che si infatuava facilmente di questa o di quella ragazza. Ovviamente nessuna mi degnava di uno sguardo, allora scrivevo poesie, pensieri, racconti in cui descrivere a parole ciò che provavo. Da allora non mi sono più fermato. Col passare degli anni ho cominciato a scrivere sul mio rapporto con la società, la letteratura, perfino con la scrittura stessa. Temi profondi. Anche troppo... Quando capisco che mi sto prendendo troppo sul serio, mi fermo. Allora tendo a scrivere storie ridicole, paradossali. Forse è un modo per sdrammatizzare, non saprei.
Mi capita spesso di fare continue revisioni sui testi. Raramente godo del “Buona la prima”. Per questo disco ho riveduto e corretto i testi parecchie volte, facendomi aiutare da due carissimi amici. Se non l'avessi fatto sarebbero risultati testi poco chiari o peggio ancora poco diretti.
Quando ritorni su qualcosa che hai scritto la sera prima, magari dopo una sbornia colossale o a seguito di un momento illuminante, ciò che conta, è mantenerne integro lo spirito o la sensazione che ha generato quelle parole, dando loro un senso più ampio, universale, non solo individuale. Revisionare è un atto intenzionale, necessario per precisare ciò che si vuol dire e che l'istinto ha sputato fuori di getto. A volte però succede l'opposto. Le parole cambiano suono, la forma prende il sopravvento e lo spirito si perde. Bisogna stare attenti con le parole.


5. Qual'è la tua canzone di cui sei più soddisfatto? Ce la racconti? 
Si intitola “Secrets”. Affronta uno dei momenti più difficili che ho vissuto con la mia ragazza. Ci sono affezionato, perché va a toccare un argomento delicato e dice tutto quello che le avrei voluto dire e che solo con questa canzone sono riuscito a tirare fuori. Fra tutti i pezzi del disco è quello che suona più vero, senza filtri.


6. Com'è suonare in una band? 
Prima di mettermi in proprio ho suonato con due band capaci di darmi davvero tanto. Con la prima ho imparato cosa significa fare parte di un gruppo e metterci la faccia; con la seconda ho appreso come si sta nelle retrovie, dietro a chi ci mette la faccia, contribuendo a dare sostegno. Sono state due esperienze essenziali. Suonare in una band e starci bene richiede un forte spirito di gruppo, un senso di lealtà e di fiducia reciproca quasi fraterna. Devi spalleggiarti. Il palco diventa l'ennesima occasione per stringere ancora di più i rapporti, e quando c'è un obiettivo e la voglia di raggiungerlo tutti insieme con lo stesso spirito, la vita di gruppo procede come una grande famiglia: alti e bassi ma sempre in marcia. E' davvero bellissimo.
Mi rendo conto però che per molte persone è più facile prendere decisioni  vicine al proprio personale modo di pensare, non per forza per egocentrismo o altro, ma per sentirsi liberi di fare scelte senza dover rendere conto a nessuno; prendersi le proprie responsabilità e fare ciò che più si vuole. Come ci sono coppie inseparabili, ce ne sono altre che dopo qualche passo insieme finiscono col separarsi. Suonare con gli altri è un po' come una monogamia vissuta collettivamente. E non credo esista una solida democrazia al suo interno. Vi sono decisioni che si prendono tutti insieme senza neanche accorgersene e altre che, se lo si vuole, si possono condividere o perfino accettare. Ciò che conta è non imporle con superiorità o subirle passivamente. In un gruppo c'è sempre una figura che spicca sopra gli altri, un trascinatore con le idee più chiare capace di guidare e trascinare nei momenti difficili. Se i membri di un gruppo sono davvero fatti per suonare insieme, certe decisioni non saranno neanche sentite come imposte, perché le condivideranno. Verranno da sé con estrema naturalezza, magari dopo qualche scontro necessario per capire i punti di vista di tutti.
Per quanto mi riguarda ho lasciato i due gruppi perché sentivo di dovermi concentrare su me stesso e sulla mia musica. Tanti musicisti però dovrebbero fare quest'esperienza per capire cosa significa “essere sulla stessa barca” e farsi le spalle per quando si dovrà scendere.


7. Come avviene il processo di arrangiamento di un brano? 
Spendo un sacco di tempo per l'arrangiamento di un brano. E' una cosa quasi maniacale; infatti spesso esagero e mi ci vuole sempre qualcuno che aggiusti il tiro. In realtà basta poco per far suonare un pezzo.
Fin da ragazzo ho ascoltato Beatles e Beach Boys e credo che il loro modo di arrangiare mi abbia influenzato molto. In più, non conoscendo la musica vado a orecchio. Canto a voce gli arrangiamenti prima di scegliere lo strumento e se sento che quelle melodie ci stanno le registro subito. Vado a istinto, cerco la via a tentativi. E' in quei momenti che sono più concentrato sul pezzo. Quando esagero (e me ne accorgo sempre troppo tardi) penso: Come cazzo faccio a rifare queste parti dal vivo? Segue un lungo minuto d'ansia. Poi capisco che portando l'essenziale andrà tutto bene. Mi piace quando la musica live è più sporca di quello che si sente nel disco. Pezzi scarni, sinceri. Punto.

8. Quanto peso dai a fattori come il nome della band e la sua immagine? 
Credo abbiano una loro specifica importanza. Il nome è davvero importante. Vale più del nome di una persona. Da questo per esempio può affiorare la personalità del gruppo, oppure può essere scelto perché ha un bel suono. Pensa a nomi come Pink Floyd, Rolling Stones, i Beatles - con quel gioco di parole lì. Riesci a immaginarli con nomi diversi? Anche The Who è un nome fighissimo, d'impatto, com'erano i loro live. Oggi l'immagine di un gruppo conta più della sostanza, ma non credo che ciò appartenga esclusivamente al nostro tempo. Voglio dire, il fatto di far salire i Beatles in giacca e cravatta fu un'idea del loro manager, una vera e propria scelta di marketing che ad alcuni di loro neanche piaceva, ma che ha funzionato alla grande contribuendo a trasformarli in un fenomeno del tutto originale. Il “chiasso” estetico genera interesse verso ciò che fai, contribuisce a creare un immaginario intorno a chi suona, talvolta in modo naturale, a volte in maniera costruita.
Sì, conta il nome di un gruppo, conta un bel logo, conta avere delle belle foto di te appoggiato a un muretto, ma è anche importante saper stare sul palco senza snaturare la propria personalità con stupidi artifici: tanto la gente lo capisce subito se stai fingendo. Meglio stupire il pubblico con quello che hai da dire. Se ci sai fare puoi anche salire sul palco in accappatoio o in mutande - come sto pensando di fare io, per esempio.


9. Come affronti le esibizioni live? 
Mi piace stare su un palco e suonare per qualcuno. Lo trovo stimolante e qualche volta perfino rilassante. Sto uscendo da uno strano periodo in cui la paura di apparire in cerca di attenzioni ha spesso contenuto il mio naturale modo di stare sul palco. Me ne stavo zitto, un po' in sordina, nascosto dietro una tastiera, incapace di apparire diretto con chi avevo davanti. In verità mi piace interagire con il pubblico, prenderlo e prendermi in giro, scherzare con la gente, fare un po' lo scemo, cose così. Credo faccia parte di me, del mio carattere. Per esempio, mi diverto un sacco ai concerti di Camilla (Furetta). Ha quel senso dell'umorismo e quello spirito auto ironico per me fondamentali per un artista. Se lei sa stare sul palco è proprio perché prima di tutto sa come farti sentire parte dello spettacolo. Se qualcuno sta davanti a te è perché vuole sentirsi coinvolto, altrimenti perché uscirebbe di casa? Adesso che sono solo soletto non so come affronterò il palco. Mi alleno davanti allo specchio cantando a petto nudo con un pettine in mano e toccandomi i capezzoli. Bello, vero? Secondo me funziona.


10.  Fai un bilancio della tua attività di musicista fino a questo momento. 
Anni fa, quando con i Lip Colour passai la prima selezione per suonare allo Zsiget Festival, mi misi in testa che avremmo vinto e che ci saremmo saliti su quel cavolo di palco. Così fu ed è stato il momento più intenso vissuto grazie alla musica. Fu una grande soddisfazione per tutti noi. Per il resto la mia carriera di musicista è solo uno sputo nell'oceano, ma l'idea di pubblicare un disco solista, il fatto di essermi messo in gioco e magari affrontare un nuovo tipo di pubblico (spero) mi elettrizza e mi spaventa. E' un salto nel buio che voglio affrontare con classe ed eleganza. Senza speranza e senza disperazione.

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