Dichiaro di scrivere questo pezzo il giorno giovedì tredici ottobre dell'anno duemilasedici. Sono le ore 20.46 circa. Oggi è stata una giornata, come ben saprete, almeno che non viviate sulla cima dei monti Appalachi, con due avvenimenti molto importanti per il panorama artistico mondiale. Due episodi che sembrano essere collegati tra di loro.
Il primo è forse quello più inerente all'interesse di noi italiani: la morte di Dario Fò. Tutti saprete chi è, soprattutto dopo che i social e i telegiornali hanno speso cascate di parole sul personaggio. Un'artista poliedrico, eccentrico, senza peli sulla lingua, che ha fatto discutere molto di sé durante la sua carriera. Svariate volte sulla lingua del critico. E come si ricorderanno i più informati, nel '97 il signor Fò entrò a far parte dei big che hanno vinto il Premio Nobel per la letteratura. Una delle assegnazioni più criticate a suo tempo, a causa di una non appartenenza del vincitore al rango degli scrittori e/o letterati. Pochi potrebbero riuscire in un'impresa simile. Era questo Dario Fò. O lo amavi o lo odiavi, zero compromessi. Zero spazio per i chiacchiericci da salotto.
E quasi per una connessione voluta dal soprannaturale, quasi come una ripicca, ultimo lascito dell'artista da molti pianto e omaggiato oggi, il premio Nobel per la letteratura del duemilasedici è stato assegnato a Bob Dylan, cantautore folk americano che ha creato uno stile e una poetica tutti suoi, dimostrando per anni di essere, giustamente, una di quelle stelle che raramente cadono in terra, e che, giustamente, vengono considerate leggende eterne della musica. E proprio come per Dario Fò, la storia si ripete: la critica si spacca in due. C'è chi lo osanna, lo esalta, lo apprezza, e c'è chi contesta una decisione del genere.
Dal canto mio, ho apprezzato la decisione, nonostante ci fossero personaggi che forse lo avrebbero meritato di più per motivi estremamente tecnici (e badate bene al termine TECNICI) per un solo motivo, oltre all'apprezzamento dal punto di vista artistico, sia chiaro: una meritata punizione.
Questa è la giusta ricompensa per un mondo, quello della letteratura, che, a causa dei colpi inflitti dall'estrema monetizzazione del mercato librario, sta facendo di tutto per escludersi. E in questi casi è la politica più inesatta da adottare.
Oggigiorno la lettura è una pratica raramente condivisa. Soprattutto nel nostro paese. I dati Istat confermano che dopo i diciannove anni c'è un calo drastico e preoccupante nel numero di letture annuali (che spesso rasentano il nulla). Tra questi scarsi lettori, emergono due grandi gruppi: i leggeri e gli integralisti.
Iniziamo con i leggeri, che hanno bisogno di poche parole: persone che leggono il libro del momento, ad esempio il più che ormai Capitan Commercial, Fabio Volo, oppure una di quelle saghe di romanzi dalla quale è stata estratta una saga cinematografica incassabigliettoni.
Gli integralisti. Questi sono persone che vivono di soli libri, sempre con la testa china su qualche pagina, a mangiare parole, a riempirsi di storie le cervella. Gente che macina grandi classici della narrativa e della poesia a profusione. Cosa ci sarà di male?, direte voi. Niente. Il problema è che tanti – forse troppi – di questi tizi sono un concentrato di saccenza gratuita e mancanza di innovazione.
E allora, cari miei, io vi dico che sì, ce l'ho a morte con la Mondadori che punta la sua campagna annuale sulle biografie di Gianluca Vacchi e Bobo vieri, e con i sempliciotti che si comprano un libro scrauso tanto per postare una foto su Instagram e titillarsi la libidine narcisista con i like. Però, sono del tutto convinto che la continua discesa nell'oblio nel mondo della letteratura, sia dovuta agli intellettualoidi da centro sociale con il culo coperto e caldo, quelli che fanno i malandati con i jeans bucati da sessanta euro, quelli che fanno dell'università la sola ed unica scuola di vita. Io ce l'ho con voi che vi riempite la bocca di paroloni senza dire niente. E quanto mi incazzo quando sento dire “Non ho tempo per leggere gli esordienti. Non ho tempo per libri mediocri”.
Voi non sapete cos è l'arte, quella vera, come neanche io lo so, e come nessuno saprà mai. Ecco cosa manca: l'ammissione e il piacere del non sapere. Le più grandi opere letterarie contemporanee sono venute fuori da situazioni difficili, dalla ricerca dell'arte, talvolta da un'estrema ignoranza. Dalla vita vissuta.
Vita vissuta.
Non è un cliché, è la pura e limpida realtà. Non si deve leggere per fuggire dal mondo. Si deve leggere per affrontare meglio il mondo. E questo deve valere anche per lo scrittore. I grandi autori da venti o trent'anni a questa parte – fatta qualche eccezione – mi sembrano solo dei grandi nostalgici che ricercano una realtà letteraria fatta di discorsi e termini pompati, così come il loro ego rigonfio, che li portano a raccontare storie sì avvincenti, ma prive di qualsiasi luccicante realtà quando terminano. Dobbiamo prendere il passato, assimilarlo, ma ad un certo punto sfruttare solo quel che ci è utile per andare avanti e creare la nostra di generazione.
Ed è per tutto questo che vi ribadisco che sono contento che Dylan sia stato premiato a Stoccolma quest'oggi. Le sue canzoni sono cariche di poesia, di quella vera, di quella che nel mondo si sente raramente. Lui la fa sentire, questa poesia, da non so nemmeno io quanti anni.
Inoltre questo fatto dovrebbe dimostrare un dettaglio importantissimo che tutti tralasciano, e che mi rendono orgoglioso di avere passione per i libri: le parole, la scrittura, sono alla base di tutto. E non c'è cosa più meravigliosa a mio avviso.
In conclusione, vi dico di non stare ad accusare un povero cantautore che ha dimostrato che l'arte non è una sola questione di campi, ma di riflettere su ciò che stiamo vivendo e su come poter migliorare le cose nel nostro piccolo.
E se con questo pezzo avrò fatto storcere dei nasi, sappiate che sarò felice. Tanto non ci sono risposte sincere. Perché la risposta, amico mio, sta soffiando nel vento, la risposta sta soffiando nel vento.
Dio benedica la letteratura.
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